Il senso di attesa perché tutto cambi.
La verità che si dispiega dinanzi a noi è quella di un mondo ormai privo di figure intellettuali capaci di sollevare la società oltre il rumore del contingente. Tra uno scrittore confinato nella dimensione regionale, come un Saviano che si trascina nell’alveo della propria terra, e uno Scurati, abile nel creare una narrativa episodica ma che senza l’ossigeno del sistema mediatico svanisce come fumo al vento, il vuoto intellettuale si fa abissale. Il grande prodotto culturale del Novecento — la narrativa, il cinema, la musica pop — è giunto al tramonto; le nuove generazioni, figlie di un’epoca in mutamento, forgiano linguaggi che nulla devono al passato, come se la modernità avesse reciso i legami con ogni radice.
Eppure, vi è un inganno sottile che pervade il nostro tempo, quello della contraddizione. Nei nostri dialoghi quotidiani, la contraddizione dell’interlocutore appare come un fallimento, un errore da correggere. Il panettiere che si smentisce o il collega che inciampa nella propria logica devono rettificare, perché la mente umana — realista per natura — non accetta che A sia anche non-A. Ma cosa accade se questo schema viene esteso alla comunicazione pubblica, alle narrazioni di potere? Qui la contraddizione perde significato, perché non vi è interlocutore, non vi è dialogo. Quando Mario Draghi proclama che bisogna smetterla di abbassare i salari, non parla con qualcuno; egli emette il suono di una formula magica, un’asserzione che non attende risposta. Così, quando i media affermano che l’Unione Europea sta abbandonando il green, non cercano il confronto, ma semplicemente “informano i fatti”. Quando la figura di Joe Biden viene trasfigurata, da un istante all’altro, da leader vigoroso a demente inadatto, non vi è contraddizione, perché non vi è dibattito. È il suono di una predica, una formula lanciata verso un pubblico passivo, assuntore silenzioso di queste narrazioni.
Eppure, questo modello sta esaurendo il proprio potere. Le formule che un tempo governavano le coscienze — i pezzi di un Cazzullo, comprensibili solo a chi ricorda il prete della predica domenicale — ora suonano vuote alle orecchie di chi non è mai stato in chiesa. L’era della disintermediazione, guidata dai social media, riporta la comunicazione verso lo schema del dialogo. La contraddizione tornerà a pesare, poiché l’interlocutore diventa nuovamente giudice attivo e non più mero ascoltatore. Non cogliere questa rivoluzione significa condannarsi agli errori politici che oggi costellano la nostra epoca.
In Germania, già si sente l’eco di un nuovo ordine in arrivo: “Il popolo è disorientato”, dicono, preludio a una nuova vittoria dell’AfD. Il Novecento è finito, e la linea che separava il Centro dalla Destra si fa sottile, pronta a essere attraversata. Nel frattempo, altrove, si forgia l’infelicità come strumento di dominio. Se è vero che “chi è felice non consuma”, allora il consumatore ideale deve essere eternamente infelice. E quale condizione genera maggiore infelicità di chi lotta contro il proprio essere, contro il proprio sesso, in una società che gli dice di non accettarlo?
Intanto, sull’altra sponda della Manica, si consuma un altro dramma: i comici fuggono dalla Gran Bretagna per non rischiare l’arresto. Un tempo padroni della parola, essi si trovano ora braccati per battute che mettono a disagio, che urtano sensibilità fragili, come se il riso stesso fosse diventato un crimine. È un mondo che pare avanzare verso il paradosso, un’epoca in cui i nuovi codici si infrangono contro il vecchio ordine, lasciando dietro di sé una scia di disorientamento e silenziosa, amara sconfitta.