Ho visto il video di una conferenza nella quale Alessandro Barbero dice che il Comunismo svolse il ruolo di limite al Capitalismo; che finché esistette l’Unione sovietica [sic], finché il Comunismo fu ritenuto praticabile, il Grande capitale scese a patti con i lavoratori, i sindacati erano incisivi, i salari crescevano e venivano concessi diritti e migliori condizioni di lavoro.
Poi, una volta tramontato il Comunismo, il Capitalismo non ha più avuto freni ed ha potuto instaurare il “regime amorale” nel quale ci troviamo ora. Ebbene, non ho motivo per pensare che Barbero sia in malafede e, malgrado non mi piaccia un divulgatore che quando parla dei francesi fa l’accento francese à la Clouseau e quando parla dei tedeschi muove le braccia sussurrando “Ein-Zwei…”, lo trovo umanamente simpatico. Come trovo simpatici i molti amici comunisti e rossobruni che mi ritrovo e che la pensano come Barbero il quale, molto semplicemente, è uno storico e quindi considera le cose da un punto di vista fenomenico, senza cogliere la logica intrinseca che le conduce. Tuttavia mi sembra una buona occasione per chiarire alcuni aspetti decisivi. Innanzitutto mi corre l’obbligo di sottolineare che la situazione descritta da Barbero come “Comunismo” fu indicata prima di lui da Marx, Lenin, Bakunin, Trotsky e da tutti i principali teorici del Comunismo nei termini del peggior fallimento possibile al quale potesse andare incontro il Comunismo stesso. Diedero anche un nome a questa cosa, la chiamarono “socialdemocrazia”. Il Comunismo è una religione immanente e come tale aspira alla rivoluzione apocatastatica ed all’instaurazione del “paradiso comunista” della società senza classi: ogni azione politica o è un passaggio intermedio di tale dialettica o è l’esatto tradimento del Comunismo. Chi scorge nell’assetto socialdemocratico qualcosa di positivo perché Luciano Lama poteva andare a cena con Agnelli e chiedergli 1.500 lire in più in busta paga e perché così il Pci poteva impiegare i parenti nell’amministrazione pubblica, è un borghese e un traditore del popolo. Chiarito ciò, chiediamoci come mai molti postcomunisti la pensano come Barbero senza notare alcuna contraddizione. Il punto è che tutti costoro stanno dimostrando non soltanto l’intrinseca impossibilità di attuare il Comunismo – il quale, anche nei paesi di Socialismo reale, esso non fu nient’altro che Capitalismo di stato e contadini ammazzati – ma dimostrano altresì la loro felice e volontaria appartenenza al piano che il Grande capitale mise in atto a partire dal 1848, l’anno simbolico dei numerosi tumulti popolari in tutta Europa ed anno in cui – guarda caso – fu pubblicato Il Manifesto del partito comunista. Il Manifesto, e non certo l’inapplicabile e contraddittorio Capitale, fu il testo nel quale Marx disse la verità: la classe eletta, quella che doveva impegnarsi per compiere la rivoluzione, non era il proletariato bensì la borghesia. Ciò perché l’obiettivo intermedio, allora, era rappresentato dalla liquidazione dell’aristocrazia e del mondo basato sull’approvvigionamento agricolo dei mezzi di sussistenza. Nel 1848 nacque anche la spaccatura tra comunisti rivoluzionari e comunisti miglioristi (o democratici o gradualisti) relegando i primi all’ambito dell’“avventurismo” e i secondi a quello istituzionale, quello, per intenderci, delle Rolls e delle dacie in Crimea. Ma cosa successe in pratica in quel fatidico 1848 per far sì che tutto ciò accadesse? Successe che il Grande capitale, spaventato dai moti rivoluzionari spontaneisti, stabilì la strategia di utilizzo del Comunismo stesso, facendone il più raffinato strumento a disposizione del Capitale per i decenni a venire. Assicurandosi un rapporto privilegiato con l’élite comunista internazionale, facente capo per lo più ad un unico gruppo intellettuale affine per costumi e cultura, il Grande capitale finanziò le rivoluzioni comuniste appoggiando sempre i settori che potevano garantire le due cose fondamentali per il Capitale stesso: la prima, liquidazione dell’aristocrazia e del mondo agricolo; la seconda, instaurazione di regimi totalitari caratterizzati da Capitalismo di Stato in grado di commerciare con i sistemi liberali e in libero mercato le materie prime a livello internazionale ma con economie di piano interne per garantire assenza di concorrenza o svalutazione al ribasso della forza-lavoro (la Cina si è fatta poi carico di dimostrare la fondatezza di tale timore). Ecco perché Trotsky finì con un piccone nel cranio: la prospettiva rivoluzionaria permanente doveva essere scongiurata perché la rivoluzione non consente agli operai di andare in fabbrica e ai negozi di vendere. Rimaneva però irrisolta la questione esistenziale di base: cosa importa se la fabbrica è del padrone o è del partito se tutte le mattine bisogna andarci? Essere dunque entusiasti o nostalgici di quel regime che ha garantito la settimana corta, il controllo sindacale del lavoro, l’identificazione tra “lavoro” ed “emancipazione”, la mercificazione delle vite, il consumismo nichilista, la dissoluzione dei valori, l’instaurazione del controllo biopolitico e lo svuotamento progressivo della rilevanza democratica, non è nient’altro che l’ottuso omaggio che i servi del Grande capitale portano ai loro sempiterni padroni che battono moneta. Il fatto che la Rivoluzione francese abbia chiamato “Sinistra” questa cosa e che il Progressismo sia poi divenuto uno dei dogmi del Materialismo dialettico comunista non toglie nulla alla sua intrinseca e radicale funzionalità subordinata al Grande capitale espressione della Seconda rivoluzione industriale. Ecco perché oggi che il Comunismo è morto esiste ancora una Sinistra che non ha più bisogno di far finta di essere contro il Capitale o a favore del proletariato e può quindi chiedere direttamente al Grande capitale di concederle i “nuovi diritti”, cioè i fantasmi dei diritti. Ma non si tratta forse dello stesso meccanismo concepito nel 1848? Non si tratta forse di convincere il popolo di volere quello che il Capitale ha da vendergli in cambio del suo asservimento? Il Comunismo, per come si è imposto nel mondo dal 1848 al 1991 e per come si è successivamente trasformato in postcomunismo o “New labour”, è sempre stato il dispositivo che il Grande capitale ha adottato per tenere buone le masse; è sempre stato il cane da pastore che tiene buono il gregge mentre il pastore conta i guadagni; è sempre stato il mezzuccio da traffichini che le persone dotate di una fibra morale molto labile hanno sposato per farsi gli affarucci propri all’ombra dei grandi affari del Capitale; è sempre stato il momento in cui i rubagalline potevano fare razzia di polli e di trattori a casa degli altri. Provare nostalgia o ammirazione per Enrico Berlinguer o per Leonid Breznev o per Nicolae Ceausescu o per Tony Blair è esattamente la stessa cosa: dichiararsi volontari servi del sistema capitalista e dei suoi vari e diversificati dispositivi di controllo. E non è vero, come dicono i liberali, che il comunismo “non ha mai funzionato” o, come dicono i postcomunisti, che “non è mai stato vero comunismo”: ha sempre funzionato alla perfezione ed è sempre stato quello vero perché il suo compito era portarvi esattamente qui dove siamo ora.