L’arte contemporanea come metafora ideale del woke

La metafora per comprendere l’incomprensibile incongruenza tra perdite economiche e scelte aziendali woke è l’arte contemporanea.

Qui siamo tra noi e certe cose possiamo dircele: la birra Bud che usa la repellente figura di Dylan Mulvaney per pubblicizzare un prodotto indirizzato in particolare ai camionisti o la Disney che manda in giro un’attrice semisconosciuta a dire che lei farà Biancaneve ma solo per comunicare concetti woke ai bambini oppure quella regista completamente sconosciuta alla quale era stato affidato il nuovo capitolo della saga di Guerre stellari che ha dichiarato che lo girerà “pensando a come mettere a disagio il maschio bianco”, sono stati tutti licenziati dopo aver provocato enormi perdite o fatto registrare proteste tra i consumatori ma la domanda vera è: perché quelle iniziative sono state pianificate? Noi esultiamo perché ogni qual volta la realtà si prende una rivincita sul pedagogismo kantiano totalitario dei transumanisti un fiore sboccia nei campi, ma l’interrogativo rimane e rimane apparentemente inspiegabile. Anche i manager responsabili di questi tentativi demenziali e malvagi a un tempo vengono licenziati, la manager woke della Disney che ha fatto cambiare sesso a tre dei suoi quattro figli – sfidando così ogni legge statistica – e che nelle convention diceva che la priorità era immettere più propaganda gender possibile nei cartoni animati, è stata cacciata a pedate – anche lì grande soddisfazione ma il fatto è che quelli così non si trasformano in lupi nelle notti di luna piena, tutti sanno chi sono e vengono assunti o promossi in ruoli di vertice proprio perché sono quella roba lì. E come si può spiegare una tale tolleranza alle perdite, ai passivi di bilancio, nel santuario del capitalismo finanziario?

Qualche mese fa uscì un articolo sul Wall Street Journal che cercava di dare una risposta e in effetti disse cose molto interessanti, prima fra tutte il fatto che quei top manager usano i soldi delle aziende (che sono società per azioni quindi usano i soldi degli azionisti) per fare carriera a livello individuale comprandosi presso il mondo woke, quello che domina l’attuale terra ostile, medaglie di accreditamento per la carriera personale. Quello che nel WSJ non c’era scritto, ma che si può intuire, era che la metafora per capire questi falò insensati di denaro era l’Isola di Epstein: ci dovevi andare per mostrarti membro dell’élite woke, per mostrarti amico dei vertici dem, per accreditarti nel giro della Sinistra transumanista mondiale. Ci andava anche Stephen Hawking. Ma non credo che la Epstein Island sia la metafora perfetta; è buona ma non perfetta. La metafora perfetta è l’arte contemporanea.

Darò per scontato che con “arte contemporanea” tutti sappiamo a cosa alludiamo. Marina Abramovic fa delle perfomance e le vende sottoforma di foto, video o “oggetti correlati”. Non fa molti soldi: dalle 50.000£ al milione di dollari. Un Baloon Dog di Jeff Koons, invece, fu venduto nel 2013 per 60 milioni di dollari. Uno squalo sotto formalina di Damien Hirst è stato venduto a 12 milioni di dollari. Qui ci stiamo avvicinando al cuore della soluzione ma non la sveleremo del tutto, cercheremo soltanto di indicarla. Chi e perché compra un buco nel terreno (land art) per quattro milioni di dollari? Non risponderemo a questa domanda ma passeremo alle successive: il buco nel terreno ha un reale “mercato”? No. Un dipinto fatto da un tizio urinando sulla tela ha un reale “mercato”? No. Comprare per due milioni di euro un Taglio di Fontana significa realmente “investire” denaro? No. Mettere in asta un pezzo di arte contemporanea consente un guadagno certo oppure la quotazione è variabile e soggetta a fattori imponderabili? Sicuramente è imponderabile. Ma ora la domanda decisiva: il mercato dell’arte contemporanea alta, quella dalle quotazioni realmente elevate, è un reale “mercato”? No, si tratta di un circolo internazionale formato sempre dalle stesse persone. Possono essere cento oppure duemila ma sempre di “appassionati” si tratta. Esattamente come i “forti giocatori” al casinò, sono sempre gli stessi in tutto il mondo. Allora perché esiste un “mercato dell’arte contemporanea”? Sono tutti pazzi o sprovveduti? No. Il “mercato” esiste perché ha una precisa funzione che non può essere detta.

Affidare la pubblicità di una birra a un travestito ha la stessa identica funzione che non può essere detta e questa funzione comporta una perdita economica che in realtà rappresenta un investimento. Diciamo che quello che sembra un passivo in realtà è un’elaborata forma di attivo. Attivo reale ma – e qui viene la vera affinità tra “prodotti woke” ed arte contemporanea – soprattutto investimento ideologico, cioè propaganda, cioè pubbliche relazioni woke. Quei “passivi” vengono recuperati (non si può dire precisamente come) e, in più, forniscono un valore aggiunto di pedagogismo di propaganda a quelle aziende ed a quei manager che accettano di simulare una perdita, accettano di venire “sacrificati” per una scelta sbagliata ma che in realtà scalano la gerarchia esoterica del mondo woke, pronti a risbucare in altri posti di vertice al prossimo giro, con stipendi che passano da 240 milioni di dollari l’anno a 380 milioni di dollari l’anno. In altri termini: Dylan Mulvaney è un artista contemporaneo, fa performance esattamente come Marina Abramovic.

Il woke è come l’arte contemporanea: una simulazione di massa dove tutto è irreale, fittizio e simbolico. E soprattutto dove i vertici guadagnano sempre ma alla base della piramide esiste una massa di (giocatori) perdenti che ci rimettono sia in senso economico che in senso esistenziale. Perché comunque i cacciavitari progressisti che si comprano il dipinto dell’artista contemporaneo fatto con catrame e carte delle caramelle a 28.000 euro ci sono e sono loro quelli che subiscono la reale perdita, quella che da qualche parte deve finire.

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