Le civiltà passate e i segni radicali della felicità

Se mentono così tanto sulle notizie, chissà quanto possono aver mentito sulla storia. A saper leggere negli interstizi delle testimonianze storiche forse non si scopre la verità ma si insinuano sospetti sempre più fondati sulle falsità costruite ad arte, nel corso dei secoli, da coloro che avevano interesse a controllare il presente attraverso il passato. 

Uno tra gli argomenti di maggiore interesse e di più curiosa sottovalutazione è rappresentato dalle Leggi suntuarie. Dal primo periodo repubblicano romano sino alla fine del Settecento – duemilatrecento anni quindi, una discreta base statistica – sono sempre state emanate leggi finalizzate alla moderazione del lusso ed alla punizione pecuniaria della sua ostentazione. Tra le numerose considerazioni che la persistenza di tali leggi, presenti in pressoché tutto il mondo, ci inducono a fare, una si impone sopra le altre: come si concilia la necessità dell’autorità statale di frenare l’ostentazione generalizzata di ricchezza con la narrazione secondo la quale tutto il mondo antico e tutto il Medioevo non furono altro che momenti di oscurità finalmente rischiarata dalla modernità industriale che ha esordito prima con il 1789 e si è poi radicata per tutto l’Ottocento, fino a stabilirsi nel Novecento e giungere sino a noi? Come mai nei due secoli “illuminati” le leggi suntuarie sono scomparse? E come mai nei secoli progressisti, finalmente liberi dalla religione e votati alla libertà, all’uguaglianza e alla fraternità, non si sono mai ammazzate tante persone in così poco tempo? Perché l’uomo infelice, debole e sempre sottoposto al rischio di morte del buio Medioevo doveva essere multato perché ostentava troppa felicità, troppo agio, troppo lusso e troppa prosperità, mentre il libero, autonomo, consapevole e felice operaio dei nostri tempi deve prendere il Fentanyl per sopportare la propria vita? Bonvesin De La Riva segnalava, nella Milano del Duecento (100.000 abitanti), l’esistenza di 150 osterie e di 1200 taverne (osterie con albergo). Nel 1264 nel circondario di Milano si riempivano 600.000 botti di vino ed il commercio era talmente esteso da costringere il podestà a limitarlo entro determinati orari del giorno. Nella Venezia del Quattordicesimo secolo il commercio più fiorente era basato sulle spille in oro e argento che servivano alle donne a nascondere, sotto i risvolti dei vestiti, altri gioielli la cui ostentazione era proibita anche nella città con la legislazione probabilmente meno rigida al mondo. Ad Amsterdam nel 1637 i due terzi delle ricchezze di quella che era allora una delle città più ricche d’Europa, era utilizzato per la compravendita di tulipani e nella Firenze dei Medici gli investimenti in opere d’arte ed in mobilio pregiato erano talmente estesi che anche i semplici bottegai facevano a gara a chi aveva le case più belle. A parte gli studi di Georges Bataille sul concetto di spreco e, in qualche accenno, il Saggio sul dono di Marcel Mauss, non esistono testi che abbiano mai affrontato quello che appare il cuore stesso della questione: come mai coloro che oggi vengono descritti come tristi, vittime di oscurantismo e di concezioni ingiuste della vita e del mondo dovevano essere frenati nella manifestazione della loro felicità e oggi, quelli che dovrebbero rappresentare la generazione più longeva, più consapevole, più assistita dallo Stato, con le migliori condizioni di lavoro, più responsabile e più sostenuta dalle scoperte scientifiche di sempre, oscilla tra una sorta di orrore lovecraftiano e forme autolesioniste di fanatismo acefalo nella più radicale disperazione? Bisogna scrivere un libro apposta per chiederselo…

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