Pubblichiamo la lezione tenuta da Silvia Guerrini su temi inerenti In terra ostile
Un legame scorre sotterraneo tra Realtà, Verità, Libertà, Bellezza, Sacro senza le quali non possono esserci Comunità e Umanità, senza le quali non può esserci nemmeno Giustizia.
Con queste riflessioni tesserò e farò emergere questo legame. Traccerò le dissoluzioni dei tempi moderni e affronterò le ragioni per cui non può esserci Giustizia in un sistema tecno-scientifico e in un ordine cibernetico.
Tra le esigenze dell’anima Simone Weil identifica la libertà, la responsabilità, l’uguaglianza, la verità, il passato. Tra queste dovremmo anche aggiungere la giustizia, o meglio, il senso di giustizia. Non può esserci Giustizia in assenza di Verità. Verità intesa non come la razionalizzazione e la calcolabilità, non come il nuovo ordine di verità algoritmico, ma la Verità dell’essere, dello spirito, della Tradizione.
Per Simone Weil il poter accedere alla Verità non dipende dall’ingegno, ma dal “prestare attenzione”. Teresa Forcades nelle pagine del libro Per amore della giustizia sulle figure di Simone Weil e Dorothy Day a proposito della prima scrive: “L’adolescente Weil comprende che la verità va al di là dei propri sforzi e si arriva a conoscerla solamente se essa stessa si rivela”.
Difficile oggi, nell’epoca dell’immediatezza e dell’affanno, prestare attenzione perché significherebbe soffermarsi. In un eterno presente simultaneo e frammentato, il non tempo del virtuale è scisso da ogni collocazione, un tempo de-faticizzato e atomizzato che rende la vita una mera successione di momenti perdendo ogni permanenza e solidità. Difficile indugiare, aprirsi al disvelamento delle cose, cose che trattengono i riferimenti duraturi e i significati del mondo, difficile aprirsi al disvelamento della Verità.
La cattura e l’analisi dei dati in tempo reale non comporta solamente un’infrastruttura tecnologica e digitale, ma un nuovo paradigma in cui l’essere umano costantemente accompagnato dagli algoritmi perderà ogni orientamento e ogni ancoramento nel mondo.
La durata è una caratteristica comune di Realtà, Verità, Libertà, Bellezza, Sacro.
“Non è l’immediata presenza delle cose ad essere bella”, scrive il filosofo Byung – Chul Han, “Per la bellezza sono essenziali le segrete corrispondenze tra le cose e fra le idee, che si stabiliscono oltrepassando grandi spazi di tempo”. Quando le cose entrano in relazione, la bellezza come evento relazionale. In un presente costellato da rapporti usa e getta e consumabili non è possibile relazione, legame, appartenenza, radicamento.
La Bellezza, il Sacro, il rito richiamano un ritmo comune che tesse la Comunità, richiamano un altro ordine di tempo, un tempo eterno lontano dal tempo del presente frantumato basato sul consumo momentaneo di oggetti e di rapporti sempre nuovi.
La Bellezza, il Sacro, il rito non si reggono sull’immediato, momentaneo e fugace piacere, ma sulla loro essenza che rimanda al passato, al ricordo, alla memoria. Una memoria incarnata. Uno smarrimento per un ritrovarsi e un ricollegarsi a un altro ordine di tempo. Una tensione interna che ci chiama a un vincolo verso qualcosa che trascende l’immediato e il quotidiano.
“La salvezza del bello significa la salvezza di ciò che vincola e impegna a una responsabilità”, scrive Han. Qui, per collegarmi alle mie precedenti lezioni, ritroviamo la Libertà intesa non come assenza di vincoli, ma come vincoli e responsabilità.
Viviamo in una società anestetizzata, le persone sono anestetizzate dal sentire comunitario e vengono incanalate verso una pseudo partecipazione emotiva che segue i nuovi dettami. Una società tradizionale e rituale non aveva bisogno di empatia, era un corpo unico, oggi il marketing dei desideri corre con il marketing emozionale che sottende una lacerazione e una dissoluzione dell’appartenenza a una Comunità.
“Perdere l’amor patrio, come l’amor di Dio e della famiglia, significa perdere il senso del limite e del comune destino. La patria, la religione e la famiglia sono confini che non solo delimitano la nostra vita rispetto al mondo esterno, ma sono argini al nostro egoismo che limitano il nostro individualismo” scrive Marcello Veneziani nel suo ultimo libro L’Amore necessario. La forza che muove il mondo e prosegue: “L’amore preserva, custodisce, mantiene in vita. Amore, oltre che predilezione, è proiezione e protezione; tutti i grandi principi vitali – Dio e religione, patria e tradizione, famiglia e civiltà – sono questo, ci proiettano oltre noi stessi e ci proteggono”.
In un “mondo senza cuore” la famiglia rappresenta l’ultimo rifugio, l’ultimo argine di resistenza come anticipò con estrema lucidità Christopher Lasch: “Anziché liberare l’individuo dalla coercizione esterna, la decadenza familiare lo assoggetta a nuove forme di dominio minandone contemporaneamente la capacità di opporvisi”. Famiglia luogo di trasmissione, orientamento nel mondo, gratitudine, differenza, riconoscimento dell’alterità.
“Dio, Patria, Famiglia ci chiamano al dono di noi stessi, un dono senza riserve. Che nasce dalla gratitudine e dalla volontà”, leggiamo in Conservare l’anima. Manuale per aspiranti patrioti di Francesco Borgonovo.
“Dentro di noi, anche se non ce ne accorgiamo, restano le tracce di tutti coloro che ci hanno preceduto […]. Questo significa avere una Patria: essere figli di un passato, unirsi in una catena che collega l’antichità all’avvenire”. Parole di Borgonovo che rimandano al ribelle descritto da Ernst Jünger: “nel ribelle sopravvivono tracce di un sapere che ha radici più profonde dei luoghi comuni dell’epoca presente. […] Ciascuna delle nostre azioni contiene in sé stessa un seme a noi sconosciuto”. Quel passato che anche Simone Weil identificava come una necessità dell’anima e nella sua cancellazione intravedeva il delitto supremo. Quel passato che nel paradigma progressista deve essere continuamente superato. Ma non è possibile disgiungere il futuro dal passato allo stesso modo in cui non è possibile disgiungere il corpo dallo spirito.
Viviamo in una società senza dolore, per collegarmi al pensiero di Han: “La nudità dell’anima, l’esposizione, il dolore verso l’Altro ci viene oggi del tutto a mancare. La nostra anima è per così dire ricoperta di una callosità che ci rende insensibili, non ricettivi nei confronti dell’Altro”.
Una società che non ha posto per il dolore potrà produrre solo un’insensibilità nei confronti della vita. Una cultura della non vita, in questo orizzonte sono da collocarsi le recenti spinte francesi sull’aborto e quelle sull’eutanasia: la vita umana dal concepimento alla morte dovrà perdere ogni valore intrinseco. La vita come scarto. Ogni vita considerata non prevista, non calcolata, non utile, non efficiente, non performante, non funzionale, non ottimale, non adatta verrà eliminata con una semplice e normale operazione medica, con una mera operazione tecnica. Ma siamo esseri umani e non macchine funzionanti e come intravide Jünger “Che sia un pezzo di materiale sul campo di battaglia o un ingranaggio nella macchina dell’economia di guerra, l’età moderna ha l’abitudine di ridurre l’essere umano a un oggetto funzionale. Tutto ciò che è “non essenziale” – tutto ciò che ci rende umani – viene allegramente scartato”.
La vita deve essere conforme a determinati standard e deve seguire il criterio dell’utile e il principio transumano di ottimizzazione e implementazione, di cancellazione della sofferenza, del dolore, della malattia, del limite.
In nome della libertà e dell’autodeterminazione sta avvenendo una profonda trasformazione antropologica. Affermare che una vita può essere uccisa o suicidata significa che questa vita vale molto di meno se si afferma invece che è indisponibile, vengono stabiliti dei criteri per i quali quella vita è eliminabile e questo in realtà porta a una sottrazione di libertà ed espone tutti al rischio di rientrare in quei criteri. Criteri per loro natura mutevoli non reggendosi sul principio di indisponibilità della vita.
In una società che promuove la cultura della non vita, dello scarto, della performatività transumanista e dell’inadeguatezza dei corpi rispetto alla tecnica la retorica dell’essere liberi di scegliere se ricorrere a determinate pratiche è un pericoloso piano inclinato: dal diritto si può arrivare al dovere di far morire e di morire se non si rientra nei criteri stabiliti, allo stesso modo dal diritto al dovere di nascere in una clinica di fecondazione assistita. Nascita e morte sono sempre legate nelle molteplici trasformazioni in atto. Ma i fondamenti dell’etica e della Giustizia non possono reggersi né sulle pulsioni soggettive mutevoli né sui criteri direzionati dal potere. La verità naturale della vita, della nascita e della morte e la loro indisponibilità non possono essere negate se no tutto può diventare il contrario di tutto. Lo scopo è una riscrittura dell’etica e in ultima istanza una sua cancellazione.
In questa società dell’ottimizzazione e dell’implementazione non c’è posto per il dolore, è considerato come segno di debolezza. Il dolore deve rientrare in un paradigma medico, deve essere medicalizzato, nascosto o estirpato. Il dolore rappresenta non solo un disturbo nel livellamento positivo di una società trasparente, ma qualcosa di obsoleto. Ma il dolore reclama il suo spazio, non può essere cancellato, come insegna Jünger, può solo cambiare forma, riaffiorare e irrompere all’improvviso.
L’anestesia del dolore corre parallela alla perdita di significato del sacrificarsi per un’idea, per un mondo altro, per una lotta, anche se disperata, anche se senza scampo.
“L’ideologia progressista, […], indebolisce lo spirito di sacrificio. E nemmeno offre un antidoto alla disperazione” scrive Christopher Lasch in Il paradiso in terra. Il progresso e la sua critica e prosegue: “La speranza non richiede la fede nel progresso. Richiede la fede nella giustizia. […] La speranza implica una fiducia profondamente radicata nella vita, che appare assurda a chi non ce l’ha. Si nutre, più che della fede nel futuro, nella fede del passato. Trae origine da antichi ricordi”.
Il dolore regge la felicità, se il dolore viene soffocato anche la felicità appiattisce venendo meno quella passione dolorosa che la contraddistingue. Il dolore regge anche la stessa esistenza. Un essere umano che ha paura della vita, dei suoi imprevisti e di quello che può sfuggire dai calcoli algoritmici, che cerca solo ciò che sarà concepito come benessere e sicurezza, un essere umano cullato dal comfort non si potrà più assumere nessun rischio, nessuno sforzo, nessun impegno duraturo. A cosa serve sforzarsi se la via da seguire la indicano gli algoritmi dell’Intelligenza Artificiale?
Non può esserci Giustizia in un ordine cibernetico. Gli algoritmi si basano su una correlazione e un incrocio di un’immensa quantità di dati che può produrre grossolani errori di analisi e riflettono pregiudizi, parzialità e semplificazioni dei loro programmatori umani, ma su questi aspetti meramente tecnici possono esserci da un lato affinamenti e dall’altro lato rassicurazioni e soprattutto questi aspetti non rappresentano il fulcro del problema. Non potrà esserci Giustizia in un regime algoritmico perché ci troveremo davanti a un sistema che si presenterà come in grado di analizzare ogni cosa e di prevedere la miglior direzione da intraprendere. Una protocollazione totale della nostra vita, dalla nascita alla morte.
L’Intelligenza Artificiale prenderà sempre più decisioni che a noi risulteranno incomprensibili a cui dovremmo solo adattarci. Dai consigli che diventeranno precetti in ogni ambito, dalle nostre abitudini e dai nostri comportamenti all’ambito sanitario in una società terapeutica a guida algoritmica con una medicina “personalizzata e predittiva”.
Dal corpo iatrogeno – che diventava riflesso della parcellizzazione della medicina e della probabilità statistica di essere potenzialmente a rischio di una sviluppare una patologia con diagnosi precoci – arriviamo al corpo algoritmico che diventa riflesso della predizione algoritmica.
Per funzionare l’IA necessita di un mondo sincronizzato, di una comunicazione in tempo reale, di una tecnicizzazione dell’umano, della vita e di ogni fenomeno. La realtà stessa dovrà essere aderente e allineata a quello che gli algoritmi prevederanno.
Un dataismo che non prevede nient’altro a ciò che può essere calcolato, nient’altro dietro a ciò che è dato, dietro ai dati nessuna trascendenza. L’essere umano evaporizza.
L’IA con i suoi algoritmi crea un nuovo ordine di verità che non ha precedenti nella storia, un nuovo ordine verso cui non si potrà dubitare.
Nel nome della libertà oggi abbiamo una perversione della libertà, l’umano deve liberarsi dalla sua identità, dal suo sesso biologico, dalla sua famiglia, dalla sua cultura, dalle sue tradizioni, in ultima istanza deve liberarsi da se stesso. Ma non possiamo scegliere il nostro sesso, nasciamo con un sesso, non possiamo scegliere la nostra famiglia, nasciamo da una madre e da un padre e non possiamo scegliere il nostro luogo d’origine. Questa presunta libertà di scelta porta alla disgregazione e alla dissoluzione dell’umanità.
Un’autocreazione perenne recidendo con odio e avversione tutto ciò che ci ha preceduto e da cui proveniamo. Un’avversione che corre parallela all’avversione verso tutto ciò che è vita, viscere, corpo, sangue, natura. Sotteso un principio profondamente transumanista. Ma non nasciamo dal nulla, non possiamo autocrearci, proveniamo da una famiglia, da una comunità, da una patria, da un passato.
Una mutazione permanente, pronti per il bricolage genetico, per la riproduzione artificiale, per il cibo sintetico, per il laboratorio mondo. Cambiare incessantemente, questo è il nuovo mantra, cambiare sesso, corpo, famiglia, legami, luoghi di origine. Eternamente insoddisfatti, instabili, insicuri, ansiosi. Tutto deve essere transitorio, interscambiabile e mutevole. Tutto deve diventare artificiale.
Oggi la tirannia si presenta con il volto dolce che usa la retorica “per il bene, per la salute, per i nuovi diritti”. Sotto la glassa una fabbrica di desideri illimitati e di identità sintetiche che negano la realtà. Ma la libertà non è desiderio illimitato che si trasforma in diritto. Il marketing delle illusioni apre le porte a nuovi consumatori resi pazienti a vita, la trans industria tecno-medica mutila i corpi e sterilizza adolescenti, il biomercato della riproduzione artificiale la rende il normale modo di venire al mondo.
Una Cappa ideologica permea e impregna ogni ambito, riscrive la storia e fa credere che questo sia il migliore dei mondi possibili. Immersi in un grande inganno siamo cresciuti credendo che la sinistra progressista transumana che rivendica quelli che vengono considerati i giusti ideali di libertà, giustizia, uguaglianza sia nel lato giusto della storia contro il male assoluto rappresentato da tutto ciò che è Tradizione, Dio, Patria, Famiglia. Ma questo è un grande inganno e un grande ribaltamento. Anche le parole sono stravolte dal loro significato. Abbiamo visto come quella libertà sia diventata libertà di consumo, libertà senza limiti, libertà surrogato, libertà svuotata del suo profondo significato. Abbiamo visto come quell’uguaglianza abbia portato omologazione e cancellazione delle differenze, sia quelle tra uomo e donna, sia quelle tra culture e popoli. Abbiamo visto come quella giustizia sia diventata un vittimistico piagnisteo e una creazione di nuovi pseudo diritti. Tutto questo è l’avanzamento di quel potere transumano di dominio assoluto sulla vita.
Necessario e vitale riprendere orientamento, necessario un pensiero-guida-orizzonte di spirito e di vita, necessario ridare senso a quei valori che un tempo erano considerati nobiltà d’animo, quei principi per cui si dovrebbe combattere e per cui si dovrebbe essere disposti a morire.
Jacques Ellul – come Pier Paolo Pasolini – sulle contestazioni degli anni ‘60 e ‘70 apparentemente contro il sistema ben comprese come “il contestatore apre la strada al progresso tecnico” nella sua adesione entusiasta al continuo cambiamento in linea con la necessità dello sviluppo tecnico di attaccare e stravolgere valori, costumi, abitudini, morale.
Uno dei tanti inganni è quello che identifica nella Rivoluzione illuminista e nella Rivoluzione industriale un miglioramento nella vita delle persone. Vita cortissima, morte per fame, analfabetismo questi alcuni dei luoghi comuni sull’ancien régime. Tutti rigorosamente e dettagliatamente smontati in La ragione aveva torto? di Massimo Fini. Qui non si tratta di idealizzare una fantomatica età dell’oro, ma di rendersi conto che quel mondo feudale, pur con le sue asprezze e durezze, era tanto più vicino all’umano, alla natura, alla vita, alla morte a differenza del mondo moderno.
Quella modernità che “nasce sotto il segno della negazione del trascendente”, come scrive Boni Castellane, che nasce nella negazione del valore intrinseco della vita. E se la vita perde la sua sacralità, ricordiamolo, diventa in vendita, diventa disponibile, predabile, manipolabile. Continuando a leggere Boni Castellane: “Soltanto una vita priva di significato intrinseco poteva accettare l’insostenibilità della modernità”, “Avendo creato la vita invivibile come presupposto della nuova esistenza moderna, ogni cosa poteva essere venduta a chi non aveva più niente di bello nella propria esistenza. Non si poteva vendere l’aria del mattino al contadino, non si poteva vendere la domenica di Messa al contadino, non si poteva vendere la prima pesca matura al contadino, non si poteva vendere il proprio figlio, […], all’operaio si poteva vendere qualsiasi cosa”.
Christopher Lasch in merito alla Rivoluzione francese è chiaro, mettendo in luce come questa “dimostrò che il tentativo di rimodellare la società in base principi astratti di giustizia, estirpando modi di vita ormai stabilizzati e abbattendo antiche concezioni, portò più al regno del terrore che a quello della fratellanza e dell’amore universale”. L’Illuminismo condannava il così detto pregiudizio in quanto nemico della ragione, ma così facendo cercava di estirpare una fonte di controllo morale, una saggezza nascosta che guidava la condotta degli uomini e delle donne, un senso comune sotterraneo che legava la Comunità, un anticorpo a tutto quello che la Rivoluzione Industriale e a seguire l’avanzata del sistema tecno-scientifico avrebbero generato di dissoluzione morale e comunitaria.
Le ideologie figlie della Rivoluzione illuminista e della Rivoluzione industriale – capitalismo e comunismo/marxismo – al di là di un’apparente contrasto di superficie sono espressioni del medesimo materialismo, si originano dalla medesima radice materialista.
In fondo, se ci pensiamo bene, cosa fu l’illuminismo, quella fede cieca nel progresso, nel superamento a ogni costo di tutto ciò che veniva considerato come passato, come obsoleto – e cosa è oggi il transumanesimo – se non una rivolta contro la natura, la vita, la morte, una meccanizzazione del mondo che con l’avanzare delle tecniche diventò manipolazione e artificializzazione, una volontà di dirigere e riprogettare l’eterno ciclo degli eventi, essere umano incluso, una volontà di potere assoluto che ben vediamo prendere forma nello sviluppo dell’ingegneria genetica, climatica, riproduttiva di pari passo con un’ingegneria sociale.
Ma come intuì Massimo Fini: “Questa razionalità, così indiscutibile, così confortante, contiene in sé una trappola mortale. Perché va fatalmente e progressivamente a toccare la natura, a modificarla, a manipolarla, a violentarla, a concentrare in tempi e spazi ridottissimi ciò che la biologia ha regolato con cadenze lente e ampie. […] ma la tecnologia non rompe solo l’equilibrio della natura intesa come qualcosa che è a noi esterno, attacca anche l’uomo in quanto elemento che di questa natura fa parte”. Parole che ben si allacciano al pensiero di Bernard Charbonneau: “La crisi dell’ordine tradizionale favoriva il progresso tecnico, e il progresso tecnico finiva di distruggerlo. Questa evoluzione diventa irreversibile a partire dalla metà del Medioevo. […] Le tecniche un tempo disperse iniziano a convergere. […] Dopo aver coperto tutta la superficie visibile, la tecnica si prepara a rifluire invisibilmente fino alle profondità dell’uomo”.
Quell’“inevitabile assedio dell’umano” che Jünger preannunciò proprio nell “avanzata delle teorie che tendono a una spiegazione logica e completa del mondo, […] di pari passo con il progredire della tecnica” e che tentano di imbrigliare il vivente riducendolo al regno del quantificabile. Un progredire delle tecno-scienze ci ha posto innanzi a ciò che rende tecnicamente possibile che diventa automaticamente eticamente accettabile.
È giusto inserire un impianto cerebrale nel cranio di un paziente malato di Parkinson?
È giusto testare l’utero artificiale sui nati prematuri?
Domande ingannevoli, funzionali alla retorica “a fin di bene”. Ma la Giustizia non può essere fondata su una concezione transumana di essere umano come macchina funzionante.
Basterebbe chiedersi lo scopo di questi sviluppi: far desiderare a tutti un impianto cerebrale, far desiderare a tutti una procreazione che diventa riproduzione in laboratorio. Lo scopo è trasformare radicalmente l’umanità.
Basterebbe chiedersi perché non vengono risolte, ma intensificate e incrementate le cause ambientali che producono la maggior parte delle malattie della società moderna. “La corporazione medica è diventata una grande minaccia per la salute” leggiamo in Nemesi medica di Ivan Illich. Una totale espropriazione della nostra salute da parte di un sistema iatrogeno medico, sociale e culturale.
Basterebbe fondare un’etica e una Giustizia non sul criterio dell’utile, ma a monte con una concezione essenzialmente diversa della vita e dell’umano.
Nei tempi di oggi, in un mondo in cui tutto è ribaltato, anche il significato dell’ecologia è stato stravolto. Un’ecologia promossa dalle varie compagnie, dagli Stati, dalle grandi corporazioni, da fondazioni filantropiche, dai nuovi gruppi di eco-ansiosi prodotti da Davos.
Sotteso un neomalthusianesimo che ci considera come un cancro per questo pianeta, siamo in troppi, dovremmo andare a sterilizzarci ci dicono. Questo è funzionale a spostare il piano del problema, non più un intero sistema economico tecno-industriale energivoro, predatorio e distruttivo, ma il singolo con le sue abitudini che verrà colpevolizzato e che dovrà allinearsi ai nuovi dettami green.
Le così dette “Giustizia climatica” e “Ripristino della natura” significano sdoganare l’ingegneria climatica e riprogettare la stessa natura. Significativo che la natura non esista quando si tratta di sesso, procreazione, piante e animali non OGM, ma poi ritorni, questa volta dal laboratorio e non può che ritornare sintetica. Così si interverrà sulla Terra, sul cielo, sui mari, sugli esseri viventi e su tutti i processi che li regolano: un continua manipolazione. Una precisa ideologia contro la natura, l’umanità, la vita.
Questo tipo di “ecologia” risale a quell’ecologia scientifica e transumana ben espressa da Julian Huxley in Ciò che oso pensare degli anni ‘30 che vediamo oggi prendere drammaticamente forma in tutte le sue molteplici espressioni in questa così detta Transizione Verde. Una trasformazione del mondo secondo determinate visioni tanto care a precise élite del secolo scorso e dei tempi presenti. La natura, anche quella umana, diventa spazio non solo di controllo e gestione, ma di intervento, modificazione e riprogettazione.
Oggi stiamo assistendo a una guerra contro la natura, contro ciò che nasce e che muore. Natura è limiti, è vincoli e rappresenta tutto ciò che l’ideologia progressista e transumanista vuole cancellare. Come leggiamo da Marcello Veneziani in La cappa. Per una critica del presente: “Perché si parla di ambiente da difendere anziché di Natura? Perché la Natura è il mondo originario che precede la volontà, la libertà e i desideri; è il principio di realtà che si fa mondo, limite e destino. La Natura è la realtà che noi non abbiamo creato ma che abbiamo trovato, e non dipende da noi. […] Natura evoca poi il diritto naturale, che precede ogni altro diritto. Insomma Natura è destino, e dunque nemica della libertà senza limiti”.
Non può esserci giustizia nel paradigma tecno-scientifico, all’occorrenza i tecnocrati negheranno le conseguenze dei suoi sviluppi mortiferi o le useranno per giustificare pseudo soluzioni tecniche che comporteranno ulteriori conseguenze disastrose. L’imprevedibilità della produzione di catastrofi non deriva solo dall’impiego di determinati sviluppi tecnologici, ma già dallo stadio precedente della loro produzione considerando che nell’immediato il laboratorio diventa il mondo intero.
Carter dichiarò che le installazioni nucleari potevano cadere in “mani sbagliate”, in quelle “criminali”. Come se potessero esistere “mani giuste”, “proprietari non criminali del mostruoso”, come si chiedeva Günther Anders: “non diventa forse ogni mano, per il semplice fatto che “tiene” tali impianti, proprio a causa di questo tenere, una mano “sbagliata”, una mano criminale?” e conclude affermando: “Avere era già usare […]. L’immoralità non consistette nel lancio ma già nel possesso; dato che questo, se Hiroshima e Nagasaki non fossero state devastate, sarebbe automaticamente finito in ricatto con genocidio”. Nello stesso modo non possono esserci “mani giuste” ad esempio per lo sviluppo nei biolaboratori di virus ingegnerizzati con il guadagno di funzione (delle modificazioni genetiche in grado di determinare l’acquisizione di una nuova funzione o il potenziamento di una preesistente) o per lo sviluppo di nuove tecniche di ingegneria genetica.
Non è un caso che le tecniche di fecondazione assistita siano state definite come l’equivalente in biologia del Progetto Manhattan che portò allo sviluppo della bomba atomica e che oggi lo sviluppo degli algoritmi sia definito ancora come l’equivalente del progetto Manhattan nell’ambito del digitale. Parallelismi che mettono in guardia: da determinati sviluppi non è possibile tornare indietro e le conseguenze si estendono all’umanità tutta. E che ci portano all’impossibilità di imbrigliare determinate ricerche, all’impossibilità di regolamentare determinati sviluppi dal momento in cui regolamentarli significa diffonderli, normalizzarli e trasformare radicalmente l’umanità.
Come pensare che possa esistere una giustizia sociale ed ecologica all’interno di un sistema per sua costituzione intrinsecamente predatorio ed energivoro? Pensiamo semplicemente all’estrazione di terre rare necessarie per la produzione dei vari dispositivi digitali che comporta la distruzione di interi ecosistemi naturali con sfruttamento e avvelenamento della popolazione locale.
Come si poteva dare giustizia alle persone colpite dal disastro di Fukushima? Come dare giustizia alle vittime dei sieri genici imposti sotto ricatto nella dichiarata pandemia? Non è nei risarcimenti, non è nel rendere le persone co-gestori della propria sopravvivenza post-disastro e nella gestione del proseguo infinito delle conseguenze del disastro stesso. È far in modo che altri simili disastri non avvengano. È cambiare le condizioni sistemiche che li generano. È cambiare rotta a questo sistema tecno-scientifico.
A Fukushima lo Stato con la complicità delle varie ONG occidentali aveva trasformato gli abitanti in perfetti co-gestori del disastro. Le ONG avevano diffuso dosimetri e aiutato gli abitanti a costruirseli, assistendoli nell’immane compito di una impossibile decontaminazione. Avevano insegnato alle persone come convivere in una società mortifera nell’attesa che i dosimetri facessero il miracolo. Le persone erano state trasformate in sensori viventi che si automisuravano da sé i propri livelli di contaminazione, ovviamente in piena autodeterminazione.
La co-gestione si manifesta per quello che è: l’arte di diffondere metastasi, per riprendere le analisi di Jaime Semprun e René Riesel. Una volontaria incarcerazione nei protocolli del mondo macchina.
Tutte le così dette soglie di tollerabilità – dai pesticidi alle onde elettromagnetiche – rappresentano dei parametri che non potranno mai calcolare gli effetti combinati e cumulati nel tempo di tutte le sostanze tossiche e mutagene, ma non solo, sottendono un’accettazione a una certa dose di nocività che diventa la normalità mortifera con cui convivere, in un continuo adattamento a situazioni sempre più estreme di attacco ai corpi tutti.
Le vittime dei sieri genici sono invisibilizzate o ridicolizzate e disprezzate dagli esperti che devono mantenere la narrazione. Un tempo si pensava che la conoscenza delle conseguenze delle nocività avrebbe portato alla generazione di moti di rivolta. La storia di Chernobyl insegna che la massa non si rivoltò nemmeno difronte a ciò che tutti sapevano, continuando a comportarsi come se non si sapesse. Dopo anni ci si trova a constatare la stessa situazione per quanto riguarda i danni dei sieri genici: le miocarditi tra ragazzi, le morti improvvise, i tumori a insorgenza rapida non sono abbastanza per generare un moto di rivolta collettivo, solo una rimozione di quello che è accaduto e di quello che sta accadendo. Le prove generali di un immenso esperimento di ingegneria sociale hanno avuto il loro effetto.
Il “fatto tecnico è il nostro universo”, come insegna Charbonneau, “è la carne stessa del reale e del presente” con un ritmo di sviluppo che corre veloce e quando cogliamo i suoi effetti sul mondo, questo è già oltre: “la sua potenza è tale che non possiamo concepirne tutte le conseguenze, e quelle che constatiamo a posteriori sono troppo profondamente inscritte nei fatti per essere riconsiderate”, scrive in Il sistema e il caos.
Quando la diffusione di OGM porta a una contaminazione genetica, quando le particelle nanotecnologiche sono responsabili del proliferare di nuovi tumori, il problema non è tra l’uso e l’abuso, ma è da ricercare nell’ideologia produttivista e manipolatrice dei processi viventi che struttura l’intera società in ogni sua dimensione all’interno di un paradigma sintetico e nanobiotecnologico.
Gli apici mortiferi delle tecno-scienze rappresentano delle soglie e delle trasformazioni che nel loro procedere rimuovono il passato e determinano il futuro in un unico universo di senso, riducendo l’etica a mere procedure di contorno. L’imperativo tecnico sospende ogni etica, come insegna Charbonneau “ciò che scambiamo per neutralità della tecnica è la nostra neutralità di fronte ad essa”.
La giustizia non può essere scollegata dall’etica, dai principi etici su cui si fonda una comunità. Oggi l’etica è provvisoria e mutevole. Oggi, di fatto, non esiste più etica, ma solo pretesti etici in cui anche la sofferenza e la malattia diventano oggetto di contrattazione su cui far leva non solo per trarre profitto, ma per riprogettare l’umano e il vivente.
Salvare dalla fame le popolazioni del sud del mondo con il riso OGM arricchito di vitamina A, salvare dalla malaria con il rilascio nell’ambiente di zanzare modificate geneticamente con il CRISPR/Cas9, salvare l’agricoltura dai cambiamenti climatici con piante modificate geneticamente per essere più resistenti, salvarci dalla denatalità usando le tecnologie di fecondazione assistita, salvarci dal cancro con un nuovo così detto “vaccino” a mRNA – per per fare alcuni esempi – servono come pretesti etici e giustificazioni per trasformare il mondo intero in un laboratorio vivente. Così come i nuovi pseudo diritti servono per plasmare l’umanità secondo i dettami dei padroni del discorso e dell’immaginario.
Attenzione quando tecnocratici transumanisti si mostrano preoccupati per i rischi degli sviluppi delle tecno-scienze e preoccupati per le sorti dell’umanità, quella stessa umanità che vorrebbero annientata nella sua più intima essenza rendendola cibernetica. I loro gridi di allarme – come l’appello di Elon Musk e di altri transumanisti sui pericoli dell’AI – non sono altro che gridi di distrazione e le loro pseudo soluzioni tecniche produrranno solo ulteriori disastri. E soprattutto non potranno mai rigettare il mondo da cui provengono.
Da parte nostra dobbiamo uscire dal loro paradigma di laboratorio, respingere il loro mondo.
Il paradigma della monocultura colonizza le menti con l’unica visione possibile e immaginabile tecno-scientifica che decreterà il vero e il giusto. Allo stesso mondo in cui viene meno la possibilità di una vita libera non intossicata dai veleni dello sviluppo tecno-scientifico vengono meno le stesse condizioni per far valere il senso di giustizia.
Nella conferenza di Asilomar degli anni ‘70 per una regolamentazione della tecnologia del DNA ricombinante i ricercatori discutevano dei “rischi di contaminazione con organismi modificati geneticamente”. Invece gli interrogativi dovevano essere: perché ingegnerizzare gli esseri viventi e perché assemblarli tra specie differenti con le nuove tecnologie ricombinanti? Dove si vuole arrivare? Ma non potevano essere posti dagli stessi ricercatori che volevano semplicemente autoregolamentarsi, senza ovviamente fermare lo sviluppo dell’ingegneria genetica sui corpi.
“Quando ad essere manipolato è tutto tracciare le forme di un dettaglio e concentrarsi su quello è semplicemente inutile e fuorviante se lo scopo è ribadire l’indisponibilità dei corpi tutti. Mentre si osserva distaccati la manipolazione dei vegetali, degli altri animali e, più in generale, della natura dobbiamo ricordarci che anche noi siamo natura e non è possibile sfuggire agli interventi di ingegneria genetica che si occupano di noi. Le tecno-scienze vogliono soppiantare la natura sostituendola con un grande ecosistema sintetico che sia gestibile e riprogettabile dai suoi tecnici attraverso i loro terminali. In questo ecosistema sintetico che ci circonda sempre di più dall’esterno e da dentro i nostri corpi si fa più difficile trovare un senso e tornare a riconoscerci nei cicli della natura al di fuori dei tempi del mondo laboratorio. Se sembrerà naturale un bambino in provetta lo sarà anche mangiare carne sintetica prodotta da cellule staminali e pensare ai nuovi OGM -TEA (Tecniche di Evoluzione Assistita) come al miglior cibo naturale che possiamo desiderare. […] Se non saremo in grado di difendere i corpi dalla trasformazione genetica niente resterà fuori dalle manipolazioni” abbiamo scritto nella prefazione del nostro libro I figli della macchina.
La sterilità è il nuovo paradigma dei tempi presenti: sterilità fisica, mentale, spirituale. Esseri umani resi sterili nella capacità di procreare, nella capacità di pensare, nella possibilità di comprendere il reale e, in ultima istanza, nella possibilità di difendersi e di resistere. L’umanità dovrà nascere, vivere e morire in ambiente sterile. Con questi presupposti non sarà possibile una Comunità con un senso di Verità e con un senso di Giustizia.
“Se non esiste alcuna realtà trascendente e se la verità ultima della vita consiste nella morte indicibile ed ininterrogabile in quanto termine di tutto, allora il compito dell’uomo consiste nell’elaborare strategie di sopraffazione, di difesa o di conservazione che non presuppongano qualcosa che vada al di là delle mere condizioni materiali”, scrive Boni Castellane, “Lo sradicamento di ogni cosa dalla sua prospettiva trascendente si configura, dunque, non soltanto come presupposto teorico di ogni materialismo, ma come obiettivo da imporre a quegli aspetti della realtà ancora spiritualmente ed idealmente legati alla trascendenza. Ciò molto semplicemente perché il mondo spirituale […] rappresenta un oggettivo ostacolo al conseguimento del potere assoluto”.
In un mondo completamente materialista la paura più forte è quella della morte e più la vita è mera sopravvivenza più si ha paura della morte. Con estrema lucidità Jünger aveva intuito che “Nessuno è più facile da terrorizzare di chi crede che tutto sia finito quando il suo fugace fenomeno si spegne. I nuovi schiavisti se ne sono accorti, e questo spiega l’importanza per loro delle teorie materialistiche…”. Senza la riduzione del vivente e dell’umano a mero substrato materiale l’attacco delle ideologie materialiste, della tecno-scienza e del transumanesimo non sarebbe state possibile.
Dalla dissezione dei corpi alla dissezione del mondo come paradigma della modernità: scomposizione e frammentazione del corpo e dei processi naturali in parti misurabili, quantificabili e scollegabili dall’insieme. Dallo smontaggio al rimontaggio e rimodellamento infinito come paradigma di laboratorio. In tutto questo scompare il mistero della vita.
Vandana Shiva identifica nella biodiversità un indicatore della Giustizia, leggiamo: “La biodiversità, quindi, è non solo un indicatore della sostenibilità, ma anche un indicatore della giustizia. La sensibilità nei confronti delle altre specie si traduce nella sensibilità per i nostri simili. Se possiamo proteggere il verme, la farfalla e l’ape, sapremo proteggere anche i piccoli coltivatori, perché le stesse strutture ecologiche e commerciali che spingono vero l’estinzione api e farfalle sono le stesse che stanno spingendo ovunque i contadini all’estinzione”. Riflessione importante che rappresenta quell’ecologia oggi martoriata, che ci colloca come parte di un tutto e che ci rimanda ad antiche corrispondenze tra un microcosmo e un macrocosmo. Scrivendo di contadini Vandana Shiva si riferiva ai contadini indiani che si rivoltarono contro le multinazionali biotecnologiche come Monsanto che volevano imporre monocoluture, pesticidi, semi OGM Terminator e cancellare antiche varietà locali e antichi saperi, contaminando e avvelenando ecosistemi naturali e popolazioni locali.
Era proprio l’esistenza e l’essenza del mondo contadino portatore di un altro tempo legato ai cicli della natura, ai riti e al sacro che rappresentò ciò che doveva essere spazzato via sia dalla Rivoluzione Industriale sia dalle ideologie da essa prodotte. E la “rottura radicale con il cosmo” – per usare le parole di Charbonneau – dell’operaio e del cittadino sarebbe diventata la caratteristica dell’umanità.
Nel nostro occidente sono sempre più rari i contadini, negli anni sono stati sostituiti da agro-industriali che con monocolture intensive e pesticidi hanno impoverito e avvelenato i terreni. Un’agricoltura 4.0 con droni, sensori e applicazioni digitali è lontana dal mettere le mani nella terra, da tempi e cicli stagionali. La natura e la lotta contadina simbolo della lotta contro l’artificiale è già da tempo stata sostituita da ritmi artificiali e da veleni e OGM di Bayer e Monsanto.
Piante coltivate in altezza senza terra e senza luce naturale, carne coltivata in vitro, nuove tecniche di manipolazione genetica: nutrire l’umano in questo modo sottende una precisa idea di essere umano che ci prepara ai laboratori dove sarà questo umano a essere selezionato e riprodotto allo stesso modo in cui l’immenso laboratorio zootecnico lo ha preparato a un’esistenza zootecnica.
Per concludere, come far valere quella tensione per la Giustizia con cui avevamo aperto questa riflessione? Come resistere alla Cappa ideologica progressista e transumana?
Ritorniamo all’ecologia originaria di John Muir: “Tutti hanno bisogno della bellezza così come del pane, di luoghi dove giocare, dove la natura può guarire e dare forza in egual misura al corpo e all’anima” scrisse. Proteggere il pianeta che ci ospita significa difendere la natura e difendere l’essere umano dalla manipolazione che avanza.
L’essere umano non può sostituirsi a Dio, non può sostituirsi al corso della vita, non può pensare di dirigere il corso degli eventi e “non c’è morte di Dio che non sia pure morte dell’uomo” scrive Veneziani.
Recuperiamo l’indisponibilità dei corpi e del vivente. Recuperiamo il senso del limite stabilendo un confine inviolabile che non può essere oltrepassabile e che non può essere negoziabile. E come scrisse Jean Baudrillard: “La peculiarità dell’essere vivente è di non arrivare al limite delle sue possibilità, mentre l’oggetto tecnico fa il contrario: esaurisce le sue possibilità e le spiega a dispetto di tutto, anche dell’uomo, determinando, più o meno a lungo termine, la sua scomparsa”.
“Rifondare quei principi cardinali della vita e sottrarre le motivazioni della vita al dominio della tecnica. […] Dio, Patria e Famiglia […] sono proiezioni e protezioni: proteggono dal caos, dal nulla, dalla solitudine e dall’insensatezza e ci proiettano nel cielo, nella vita comunitaria, nella storia passata e futura, a partire da quella trasmissione selettiva e primitiva che è la tradizione”, scrive Marcello Veneziani nella prefazione del libro Conservare l’anima di Francesco Borgonovo.
Recuperiamo il sacro. Il sacro e il rituale non solo sono necessari all’umanità, ma ne sono parte costitutiva essendo l’essere umano essenzialmente spirituale.
“Accettare l’esistenza di tutto ciò che esiste, incluso il male, fatta eccezione unicamente per la porzione di male che abbiamo la possibilità e l’obbligo di impedire” leggiamo in Simone Weil. Oggi, nell’unione di spiriti liberi, siamo chiamati a essere testimoni di un altra visione di mondo e di essere umano, siamo chiamati a conservare e a difendere quello che rimane, ma questo non è abbastanza, dinnanzi all’orrore e all’inumano che prende forma abbiamo il dovere morale di opporci, anche se fosse una lotta disperata non possiamo sottrarci.
Jünger si chiede: “Come reagisce l’essere umano in mezzo a una catastrofe? È in grado di rendersi conto che la storia lo sta ponendo davanti all’abisso? È in grado di percepire il pericolo?” e ci indica una strada: “Le catastrofi provano fino a quale profondità uomini e popoli sono radicati nel terreno originario. È importante che almeno un fascio di radici attinga ancora direttamente a quel terreno – poiché è da questo terreno che dipendono la salute e le sue prospettive di sopravvivenza”. “Ma se il pericolo aumenta, la salvezza sarà cercata più in profondità, presso le Madri, al cui contatto si sprigiona l’energia primigenia che le semplici forze del tempo non sono in grado di arginare”.
Dalla forza del miracolo della vita, dalla forza delle madri e dalla forza dei padri tracciamo la strada. Rivoluzione, come insegna René Guénon, è il ritorno a un’origine.
Lezione Unità Tematica “Giustizia in Scienze” per Sincletica Monastic School (Poblet)
Silvia Guerini
20 Aprile 2024
