L’assuefazione al male è uno degli aspetti tragici della vita e non c’è da stupirsi se l’attentato terroristico del 16 ottobre a Bruxelles sia stato letto da noi occidentali come un prevedibile effetto collaterale della guerra in corso tra Israele e Hamas.
L’estensione intensificata della violenza sino al parossisimo per cui ogni jihadista in tutto il mondo potrebbe uccidere qualsiasi cristiano in tutto il mondo per pura appartenenza religiosa, prescindendo quindi dalla colpa individuale della vittima che, per quanto ne sanno le cellule jihadiste, potrebbe anche essere una come Greta, cioè una che scende in piazza per chiedere “libertà per Gaza” e contemporaneamente “stop ai combustibili fossili”, è un aspetto del terrorismo islamico a lungo dibattuto, tuttavia oggi possiamo notare una novità. Il giorno successivo all’attentato, nella città di Bruxelles, l’allerta terrorismo è stata massima: voli sospesi, controlli a tappeto e sorveglianza ai massimi livelli. Tra le varie misure il governo belga ha suggerito agli abitanti di Bruxelles che non avevano particolari urgenze di “stare in casa”. Ma non è singolare che l’invito a stare in casa avvenga proprio quando le tecnologie di sorveglianza sono così avanzate? Non è strano che durante le manifestazioni degli Anni di piombo – quando se passavi per via De Amicis il sabato pomeriggio potevi beccarti una pallottola vagante – a nessuno, tranne alla mamma, veniva in mente di dirti di “stare in casa” e oggi, con le città coperte dalle telecamere, i cieli pieni di droni, i satelliti che vedono ovunque, i dati digitali in tempo reale, i riconoscimenti facciali istantanei, i sensori di movimento e di temperatura, si pensi di aggiungere il consiglio di “stare in casa”? L’aspetto interessante non consiste nel sovrappiù di controllo che il Grande fratello somministra con nonchalance, quanto nel fatto che le vite delle persone, il tempo delle persone, le abitudini delle persone, la libertà delle persone, siano considerate come variabili, elementi da sospendere in via precauzionale non solo in presenza di un pericolo attuale ma anche solo come misura di sicurezza preventiva.
Una generazione di hikikomori senza età ritiene il fatto di potere o non potere uscire di casa un aspetto secondario della propria esistenza. L’esistenza stessa è divenuta dunque una variabile della cautela, come abbiamo visto con il vaccino che, per quanti rischi comportasse, era necessario farselo “per cautela”. Ma se l’esistenza diventa una variabile della sicurezza pubblica significa che non è più la vita delle persone la costante, la costante è diventata un’altra, in questo caso l’immigrazione. Il punto fermo della nostra società, il fatto in base al quale modificare tutto il resto, è la presenza di milioni di immigrati non integrati e potenzialmente ostili nelle nostre città. Occorre riaffermare la priorità inalienabile della vita e della libertà dei cittadini riflettendo su una nuova grande stagione di reimmigrazione.